CONOSCETE LA MEMESTETICA?

 

SEMIOTICA DEL WEB

Nel suo recente libro:  Memestetica… la storica dell’arte Valentina Tanni compie un’approfondita indagine attorno alle trasformazioni dell’arte contemporanea del XXI secolo sotto la spinta della diffusione del web e delle piattaforme social. L’autrice traccia un’ampia prospettiva storica “da Marcel Duchamp a TikTok” alimentando sentieri e inciampi di riflessione dove i troll e i meme compaiono nelle comunità artistiche per boicottare, paralizzare i processi comunicativi ed estetici generando così uno scenario affascinante e al contempo disturbante segnato da gif animate, ritocchi su Photoshop e pratiche di appropriazione di ogni genere.
Le immagini circolano online in versioni e formati diversi […] sono oggetto di uso compulsivo: un consumo costante che sembra quasi deteriorarle“, afferma l’autrice. Uno scadimento di valore che travolge in particolare l’universo della fotografia, dove si assiste al formarsi di un ecosistema dominato da atteggiamenti creativi rispetto ai contenuti che l’immagine incorpora. In Internet si producono circa 300.000 immagini al minuto, 1440 minuti al giorno, 365 giorni all’anno. Una quantità iconografica universale che non riusciremo mai a vedere nella sua interezza.

Attraverso un insieme composito di esempi, la professoressa Tanni tratteggia i contorni di una fenomenologia dell’arte del nostro tempo dove il paradigma della rapidità di fruizione e diffusione segue il conseguente scadimento e l’obsolescenza pressoché istantanea dei fenomeni culturali ed estetici. A restituire una dinamica delle pratiche artistiche al tempo della memestetica è il caso del fotografo Jaime Martinez, che mixa le fotografie con gif animate, introducendo un effetto cinematico minimale. “Come dischi scratchati in eterno, le foto animate di Martinez rappresentano una serie di momenti congelati nel tempo, bloccati ma sempre sul punto di ripartire“, incalza l’autrice.
Valentina Tanni decreta un superamento delle pratiche della postproduction care a Nicolas Bourriaud. L’appropriazione, la copia sdoganata, il piluccare ovunque generano nel mondo dell’arte un big bang continuo, nel quale risulta sempre più difficile distinguere l’originale dalla copia, dove il valore della copia degrada quello dell’originale, come aveva intuito Andy Warhol negli anni ’70 con la sua nozione di originalità senza una qualche rilevanza.

Anche oggi, dopo cinquant’anni, si assiste a uno scollamento percettivo tipico dei meccanismi della Rete e delle piattaforme social. I concetti di originalità e creazione svaniscono in un panorama culturale dominato da nuove figure che ci stanno “lasciando in eredità un insieme di pratiche e di estetiche che richiamano alla memoria i precetti delle avanguardie storiche, allegramente distorti in una chiave weird/strana/disturbante, selvaggia e disinibita“, dichiara l’autrice. Dissezionare oggetti culturali banali e includerli nella Rete attraverso l’ambiguità ironica della piattaforma cinese TikTok o creare meme che bucano la Rete per iniettarsi nell’immaginario collettivo. Sembra essere questo il mood della Memestetica. È l’editing delle micronarrazioni veloci e fluide a popolare l’assenza di narrazioni storiche e ideologiche. 



 

Da qualche tempo il Cyber pittore VINCENT, di ritorno dagli U.S.A.  nella sua natale Ortigia sta portando avanti il suo esperimento di memestetica aggiungendo un’appendice al procedimento. Il Cyberspazio é l'insieme delle risorse informatiche e dei siti web che possono essere visitati simultaneamente da milioni di persone tramite reti di computer, e in cui avvengono scambi comunicativi di varia natura. Se la realtà è entrata nel mondo virtuale attraverso il selfie, cioè un autoritratto realizzato attraverso una fotocamera digitale compatta, uno smartphone, un tablet o una webcam puntati verso sé stessi e condiviso sui social network attraverso la replicazione dei meme, con tutte le modifiche che si ottengono dentro il computer con programmi di cyber-art, VINCENT  estrapola, estrude dal Web l’elaborato grafico, lo stampa su cartoncino, lo manipola e colora con gessetti degli antichi madonnari riportando il segno nel mondo reale e completa il segno grafico con tecniche miste, carboncino, inchiostri, terre e tutto ciò che riporta all’origine del segno grafico (lo splendore delle labbra è riprodotto con smalti per unghie). Proprio questa nuova dimensione supera l'assenza di peculiarità o intenzioni artistiche, riportando il selfie nell’ambito dell'autoritratto eseguito prima dell’invenzione ottocentesca della macchina fotografica. Una tecnica così all’avanguardia da farci ritornare umani.   









Per ora, il mercato dell’arte dominato da meccanismi finanziari sembra immune a queste derive delle estetiche contemporanee, ma in futuro chissà.

Basterà una scintilla.

 


VIDEO

https://www.artribune.com/editoria/2020/12/libro-memestetica-valentina-tanni/

John Berger video on line 1972
https://www.google.it/search?q=john+berger+ways+of+seeing&sxsrf=ALeKk021aCeMvWaZb-eZkN0NEUiLVEnxzQ%3A1618329293596&source=hp&ei=zb51YIm3Ib2D9u8P9pWDwAo&iflsig=AINFCbYAAAAAYHXM3YbSYPTbIMagSKZeVu-j58ZGcXFP&gs_ssp=eJzj4tTP1TcwKSgpTzFg9JLKys_IU0hKLUpPLVIoT6wsVshPUyhOTc3MSwcA--ANUQ&oq=john+Berger&gs_lcp=Cgdnd3Mtd2l6EAEYAzIHCC4QJxCTAjIECC4QJzIFCC4QsQMyAgguMgIIADICCAAyAgguMgIILjICCC4yAggAOgQIIxAnOgQILhBDOgUIABCxAzoICAAQsQMQgwE6BwguELEDEEM6BAgAEENQ7BVYwTNg13FoAHAAeACAAcMBiAGKDZIBBDAuMTGYAQCgAQGqAQdnd3Mtd2l6&sclient=gws-wiz

 

FLICKR

https://www.flickr.com/photos/188512249@N02/49993811872/in/photolist-7yHJBF-aGfrBk-2jeWj2E-2jaeajb-nFaqgr-2j4ksKW-2jcHTZx-2je1oMK-2jadY7r-hS5QJU-64Qjut-2jcGxUZ-4EAZbr-2j9rTbJ-2jd5dw3-2ioDPiy-nnZQED-2jcBsf3-2jcdKCW-MckqgL-GLqizn-2j9Pdk3-5DuZoT-2jbf3Q9-2jd7UZB-NNRJH7-2j9P9jn-oc8ET1-2jd96ar-2jih2vr-2j4mZzR-wf3W5i-2j43FoB-GurfEU-9uj6FA-2j4c474-2j4dz47-2j3FT2p-2jaMmvE-2j43D5P-65akpH-2jaeCFt-2jJJ95E-2jai6q5-2j9ZdAy-2jaimTE-2j43z2o-2hWXLop-2hWXJGZ-2j854ka/

 

TUMBIR MEME
https://www.tumblr.com/tagged/meme?sort=top

FREAKING NEWS
https://www.pinterest.it/LilPuddyKat/freaking-newsstrange-pictures/

https://blogdoeduardoferreira.blogspot.com/2018/11/freak-show-pictures-freaking-news.html

https://blogdoeduardoferreira.blogspot.com/

 

 

L’estetica fragile del XXI secolo nel nuovo libro di Valentina Tanni

By

Marco Petroni

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7 dicembre 2020

Quanto hanno influito il web e le piattaforme social sulle trasformazioni dell’arte contemporanea? Prende le mosse da questa domanda “Memestetica. Il settembre eterno dell’arte”, il libro di Valentina Tanni pubblicato da Nero Editions.


 

Valentina Tanni – Memestetica. Il settembre eterno dell'arte (Nero Editions, Roma 2020)Valentina Tanni – Memestetica. Il settembre eterno dell'arte (Nero Editions, Roma 2020)

S’intitola Memestetica. Il settembre eterno dell’arte l’interessante riflessione declinata dalla storica dell’arte e curatrice Valentina Tanni. Si tratta di un’approfondita indagine attorno alle trasformazioni dell’arte contemporanea del XXI secolo sotto la spinta della diffusione del web e delle piattaforme social. L’autrice traccia un’ampia prospettiva storica “da Marcel Duchamp a TikTok” alimentando sentieri e inciampi di riflessione dove i troll e i meme compaiono nelle comunità artistiche per boicottare, paralizzare i processi comunicativi ed estetici. Si genera così uno scenario affascinante e al contempo disturbante segnato da gif animate, ritocchi su Photoshop e pratiche di appropriazione di ogni genere.
Le immagini circolano online in versioni e formati diversi […] sono oggetto di uso compulsivo: un consumo costante che sembra quasi deteriorarle“, afferma l’autrice. Uno scadimento di valore che travolge in particolare l’universo della fotografia, dove si assiste al formarsi di un ecosistema dominato da un atteggiamento di scetticismo e apatia rispetto ai contenuti che l’immagine incorpora.

IL LIBRO DI VALENTINA TANNI

Attraverso un insieme composito di esempi, Tanni tratteggia i contorni di una fenomenologia dell’arte del nostro tempo dove il paradigma della rapidità di fruizione e diffusione segue il conseguente scadimento e l’obsolescenza pressoché istantanea dei fenomeni culturali ed estetici. A restituire una dinamica delle pratiche artistiche al tempo della memestetica è il caso del fotografo Jaime Martinez, che mixa le fotografie con gif animate, introducendo un effetto cinematico minimale. “Come dischi scratchati in eterno, le foto animate di Martinez rappresentano una serie di momenti congelati nel tempo, bloccati ma sempre sul punto di ripartire“, incalza l’autrice.
Valentina Tanni decreta un superamento delle pratiche della postproduction care a Nicolas Bourriaud. L’appropriazione, la copia sdoganata, il piluccare ovunque generano nel mondo dell’arte un big bang continuo, nel quale risulta sempre più difficile distinguere l’originale dalla copia, dove il valore della copia degrada quello dell’originale. Sempre che la nozione di originalità abbia ancora una qualche rilevanza.

Si assiste a uno scollamento percettivo tipico dei meccanismi della Rete e delle piattaforme social. I concetti di originalità e creazione svaniscono in un panorama culturale dominato da nuove figure come youtuber e instagrammer che ci stanno “lasciando in eredità un insieme di pratiche e di estetiche che richiamano alla memoria i precetti delle avanguardie storiche, allegramente distorti in una chiave weird/strana/disturbante, selvaggia e disinibita“, dichiara l’autrice. Dissezionare oggetti culturali banali e includerli nella Rete attraverso l’ambiguità ironica della piattaforma cinese TikTok o creare meme che bucano la Rete per iniettarsi nell’immaginario collettivo. Sembra essere questo il mood della Memestetica. È l’editing delle micronarrazioni veloci e fluide a popolare l’assenza di narrazioni storiche e ideologiche.
Per ora, il mercato dell’arte dominato da meccanismi finanziari sembra immune a queste derive delle estetiche contemporanee, ma in futuro chissà.

 

 

 

SEMIOTICS OF THE WEB

In her recent book: Memestetica ... the art historian Valentina Tanni carries out an in-depth investigation into the transformations of 21st century contemporary art under the pressure of the spread of the web and social platforms. The author traces a broad historical perspective "from Marcel Duchamp to TikTok" fueling paths and stumbling blocks of reflection where trolls and memes appear in the artistic communities to boycott, paralyze communication and aesthetic processes, thus generating a fascinating and at the same time disturbing scenario marked from animated gifs, Photoshop retouching and appropriation practices of all kinds. "The images circulate online in different versions and formats [...] they are subject to compulsive use: a constant consumption that almost seems to deteriorate them", says the author. A decline in value that overwhelms the universe of photography in particular, where we are witnessing the formation of an ecosystem dominated by creative attitudes with respect to the contents that the image incorporates. The Internet produces about 300,000 images per minute, 1440 minutes a day, 365 days a year. A universal iconographic quantity that we will never be able to see in its entirety. Through a composite set of examples, Professor Tanni outlines the contours of a phenomenology of the art of our time where the paradigm of the speed of use and diffusion follows the consequent decay and almost instant obsolescence of cultural and aesthetic phenomena. The case of photographer Jaime Martinez, who mixes photographs with animated gifs, introducing a minimal cinematic effect, restores a dynamic of artistic practices at the time of memaesthetics. "Like discs scratched forever, Martinez's animated photos represent a series of moments frozen in time, frozen but always on the point of starting again", urges the author. Valentina Tanni decrees an overcoming of the practices of postproduction care to Nicolas Bourriaud. The appropriation, the copy cleared through customs, the picking everywhere generate a continuous big bang in the art world, in which it is increasingly difficult to distinguish the original from the copy, where the value of the copy degrades that of the original, as Andy had guessed. Warhol in the 1970s with his notion of originality without any relevance. Even today, after fifty years, we are witnessing a perceptual detachment typical of the mechanisms of the Internet and social platforms. The concepts of originality and creation vanish in a cultural landscape dominated by new figures who are "leaving us a set of practices and aesthetics that recall the precepts of the historical avant-gardes, happily distorted in a weird / strange / disturbing key, wild and uninhibited “, declares the author. You dissect trivial cultural objects and include them on the Net through the ironic ambiguity of the Chinese platform TikTok or create memes that pierce the Net to inject themselves into the collective imagination. This seems to be the mood of Memestetica. It is the editing of fast and fluid micro-narratives that populates the absence of historical and ideological narratives. For some time the Cyber ​​painter VINCENT, returning from the U.S.A. in his birth, Ortigia, Syracuse (Italy) is carrying out her memaesthetics experiment by adding an appendix to the procedure. Cyberspace is the set of computer resources and websites that can be visited simultaneously by millions of people through computer networks, and in which communication exchanges of various kinds take place. If reality entered the virtual world through the selfie, that is, a self-portrait made through a compact digital camera, a smartphone, a tablet or a webcam aimed at oneself and shared on social networks through the replication of memes, with all the changes that they are obtained inside the computer with cyber-art programs, VINCENT extrapolates, extrudes the graphic elaborate from the Web, prints it on cardboard, manipulates it and colors it with chalks of the ancient  “madonnari” bringing the sign back into the real world and completes the graphic sign with mixed, charcoal, inks, earths and everything that goes back to the origin of the graphic sign (the splendor of the lips is reproduced with nail polish). Precisely this new dimension overcomes the absence of peculiarities or artistic intentions, bringing the selfie back into the context of the self-portrait taken before the nineteenth-century invention of the camera. A technique so advanced that it makes us human again. For now, the art market dominated by financial mechanisms seems immune to these drifts of contemporary aesthetics, but who knows in the future.
A spark will suffice.

 

vincentaldoCHIOCCIOLAgmail.com

 

I Visual studies sono un’area di ricerca interdisciplinare sviluppatasi sulla scia degli studi culturali anglosassoni, al cui centro vi è l’indagine della visual culture, termine utilizzato per la prima volta da Svetlana Alpers nel 1972 per indicare un approccio all’analisi delle opere d’arte attento non solo alla storia che le precede e le influenza, ma, per l’appunto, anche alla cultura che le circonda (Alpers 1983, 1998). Nell’esaminare la pittura fiamminga, la proposta di Alpers era quella di considerare i suoi capolavori come parte di una più complessiva cultura visuale ad essi contemporanea, entro cui le opere hanno avuto origine. L’attenzione di chi legge e interpreta immagini andava cioè spostata verso la struttura della visione propria di una specifica epoca storica, dai meccanismi che ne regolano lo sguardo ai processi stessi di produzione delle immagini, fino a giungere agli strumenti e alle tecniche su cui tale processo si regge e da cui è favorito (come per esempio il microscopio). Il testo visivo andava dunque interpretato rispetto al modo in cui una cultura non solo si rappresenta visivamente, bensì concepisce la rappresentazione stessa, regolandola, e rendendola così possibile e praticabile. La pittura non è comprensibile esclusivamente rintracciandone e ripercorrendone la singolare e specifica evoluzione, bensì è parte di un contesto più generale, di una mappa entro cui trovano un posto e assumono un ruolo le diverse risorse culturali e le pratiche che sono collegate alla visione e alla sua rappresentazione. Nella cultura visuale un quadro diventa allora un oggetto che circola entro un’economia che nasce dall’articolazione di sistemi di rappresentazione, immagini effettive e soggetti che tali immagini producono e fruiscono. Il quadro diviene un sistema testuale, e, in quanto tale, un oggetto culturale regolato da specifici meccanismi della visione, visione che si pone allora come “un’attività che trasforma il materiale pittorico in pratica significante, entro un processo che non ha mai fine (…) Colui che guarda è innanzitutto un interprete” (Bryson 1983). Parlare di visuale significa dunque abbandonare un’idea positivista della percezione visiva, per riflettere sullo sguardo come pratica di interpretazione, di cui l’immagine (il quadro, la fotografia) è solo una delle molte componenti.

 

Benché la proposta di Alpers risalga agli anni Settanta, è però solo negli ultimi dieci anni che la cultura visuale ha assunto uno statuto accademico e una legittimità scientifica, sostituendosi in Gran Bretagna, Nord America e Australia non solo ai programmi e ai corsi di storia dell’arte (entro cui si iniziano a contemplare anche il design e l’architettura, un tempo arti minori), ma anche a quelli di storia del cinema e, più in generale, delle discipline delle scienze umane che si occupano di linguaggi visivi propri della cosiddetta cultura alta come di quella bassa, e cioè della cultura di massa (di cui fanno parte anche la televisione, la pubblicità, internet). La cultura visuale è così divenuta un progetto interdisciplinare di analisi e critica dei linguaggi visivi che preferisce a un approccio storicista classico una prospettiva antropologica attenta ai processi culturali in cui qualsiasi tipo di immagine viene prodotta e interpretata, diffusa e trasformata. Le immagini non vanno cioè studiate isolatamente, come oggetti circoscritti, bensì come insiemi di pratiche che ne variano non solo l’uso ma anche il significato, come è oggi, per esempio, il caso della fotografia, medium dalle funzioni molteplici che va considerato rispetto al sistema più vasto delle immagini riprodotte e della loro circolazione (Krauss 1989). Il significato di un’immagine fotografica si lega così alle sue diverse pratiche di fruizione, e queste a sua volta alle istituzioni in cui tali pratiche si consolidano o mutano, come la famiglia, il mondo della stampa e delle riviste, quello della pubblicità, ecc. Per comprendere più a fondo la cultura visuale, la cui ottica, ci si sarà accorti, mantiene alcuni punti in comune con la critica letteraria di stampo neostoricista, è necessario allora, come accennavamo in apertura, collocarli nell’orizzonte più ampio degli studi culturali e della mediologia, con cui si intrecciano e a volte si confondono, in una esplicita e voluta mescolanza dei confini tra le discipline e i metodi di indagine. Si potrebbe quasi affermare che la cultura visuale rappresenta lo sviluppo più recente di un insieme di ricerche che non può ignorare la forza e la centralità che oggi ha assunto la visione, e in particolare i regimi scopici propri della modernità (Jay 1992), per non menzionare l’iperrealtà tipica invece della postmodernità (Baudrillard 1981), in cui non vi è più un reale a cui far risalire l’immagine, ma solo simulacri, quasi si assistesse a una svolta epistemologica visuale, successiva a quella linguistica (Rorty 1967) e a quella culturale (Jameson 1998). Vi sono dunque continuità e sovrapposizioni tra studi culturali, media studies e cultura visuale ma vi è anche una specificità propria di questi ultimi, vale a dire quella di applicarsi a un oggetto di indagine non solo variegato, complesso e differenziato, ma anche estremamente problematico, un oggetto che mantiene, tra l’altro, il doppio statuto di mezzo di comunicazione e di principale accesso al piano simbolico di contenuti culturali sia individuali che collettivi (Jenks 1995). Sin dagli anni Sessanta la mediologia e gli studi culturali si erano peraltro dedicati all’analisi delle rappresentazioni visive della cultura di massa, partendo da alcune analisi semiotiche (Barthes 1964), per poi concentrarsi quasi esclusivamente sulle pratiche di fruizione, per esempio, della televisione, e quindi su una concezione dello spettatore o della categoria di pubblico ferma ad analisi di stampo empirico, ovvero a più sofisticate indagini etnografiche delle forme di ricezione da cui era però esclusa ogni riflessione sull’immagine come testo significante. Fino alla comparsa, ma soprattutto alla circolazione e anche alla rilettura di saggi e ricerche che oggi vengono indentificati come basi teoriche della cultura visuale (si veda oltre il già citato Barthes 1964, anche Barthes 1957, Foucault 1975, Mulvey 1975, Rose 1986, Foster 1988) si era cioè fermi a un’idea ingenua di significato, che si riduceva al contenuto manifesto di un messaggio visivo. In modo analogo a quel che è accaduto, per esempio, nell’ambito della semiotica e della sociosemiotica, in cui si è partiti da modelli e categorie nate dall’analisi del linguaggio verbale, per poi sviluppare metodi e concetti propri invece di una lettura dei linguaggi visivi, la cultura visuale rappresenta anche il risultato di una riflessione sulla teoria e gli strumenti utili alla comprensione e all’interpretazione delle immagini. Fino a che punto un’immagine può allora essere concepita come un linguaggio, ma, soprattutto, nel caso specifico della cultura visuale, in che modo una critica della cultura transdisciplinare può riformulare le relazioni tra potere e sapere individuate da Foucault, aggiungendovi quelle tra vedere e conoscere, e dunque tra sapere, vedere e potere? A tali domande è ovviamente sottesa la questione dell’esportabilità o della traducibilità di strumenti e categorie d’indagine nate nell’analisi testuale della letteratura, o comunque di testi scritti, verso testi pittorici, cinematografici, fotografici, ovvero della necessità di elaborare altri strumenti e altri modelli.

 

È in questo senso allora che il ruolo dello spettatore e delle pratiche di fruizione e consumo di testi visivi (in cui rientrano i già citati meccanismi dello sguardo, le pratiche di osservazione, ma anche quelle di sorveglianza, oltre alle diverse forme dell’efficacia visiva di un testo, che possono includere effetti patemici e non solo cognitivi, come il piacere, ma anche il disgusto di fronte a un’immagine), diventano questioni importanti tanto quanto quelle legate alle forme di lettura, sebbene non siano esauribili o del tutto comprensibili se ci si attiene a un modello di testualità appiattito sul linguaggio verbale (Evans, Hall 1999). Qual è dunque la specificità di una cultura visuale, come si possono descrivere particolari strutture della visione e dello sguardo ma anche, come si diceva, del desiderio, del voyerismo o dell’eccitazione? Se il punto di partenza è la cultura che circonda tali immagini, come già indicava Alpers, si tratta di individuare le diverse componenti, i diversi elementi che la caratterizzano. Secondo Mitchell una cultura visuale si regge sull’immagine come prodotto in cui si intersecano elementi che riguardano il registro visivo e il suo grado di figuralità o di figurativizzazione del reale (visuality e figurality), altri che appartengono agli apparati e alle istituzioni, altri ancora che investono invece i corpi. Una cultura visuale è perciò il risultato di pratiche diverse che si collocano a livelli differenti sia della produzione testuale, sia della sua interpretazione, da quelli inerenti l’oggetto di indagine e il suo grado di resa del reale, a quelli riguardanti il contesto che circonda le opere, composto dal sistema dei media, ma anche da istituzioni che si pongono sempre di più come relazioni sociali organizzate e globalizzate, a quelle attinenti invece il soggetto che le consuma, insieme al suo corpo (Mitchell 1994).

 

È in questo senso che, secondo Stuart Hall diviene centrale la nozione di discorso (nuovamente da confrontare con quella elaborata recentemente dalla sociosemiotica), entro cui trovano posto sia il significato delle immagini che si analizzano, sia il loro uso, vale a dire sia i significati che esse assumono a seconda dei contesti (apparati, istituzioni, media) in cui sono prodotte e fruite, ma soprattutto i soggetti che tali significati (tale discorso) costituiscono e da cui sono a loro volta ridefiniti (Evans, Hall 1999). Il significato di un segno visivo non sta quindi solo nell’immagine, né esclusivamente nelle posizioni e nelle identità sociali di cui è composto il pubblico, bensì nell’articolazione tra osservatore e osservato, tra il potere che un’immagine ha di significare qualcosa, e le capacità dell’osservatore di interpretare quel significato. Il passaggio è quello che va dalla comprensione dei significati testuali alla questione della formazione dei soggetti, ed è a questo livello che l’analisi di una cultura visuale diviene anche percorso d’indagine attento alla formazione delle identità e delle differenze culturali, in particolare alle differenze di genere e di etnia, agli stereotipi visivi e alle metafore con cui si rappresenta la marginalità culturale, oggettivandola e rendendola altro da noi. In tale percorso, accanto a categorie di derivazione semiotica, il post-strutturalismo sincretico proprio degli odierni studi culturali pone problematiche tipiche invece di un’indagine psicoanalitica, secondo cui i significati spesso lavorano al di sotto della soglia della coscienza individuale, a livello del simbolico, di cui i linguaggi visivi sono, a differenza di quello verbale, un veicolo privilegiato di espressione (Pontalis 1987). Questa posizione è anche ciò che permette a uno sguardo, questa volta teorico, di de-centrare il soggetto e rendere la sua costituzione un processo sempre aperto ad altri significati e altre riformulazioni. L’articolazione tra osservatore e osservato va così intesa come una relazione che non viene costituita o determinata dall’esterno: il soggetto è parzialmente formato attraverso che cosa e come vede, dal modo in cui il suo campo di visione è costituito. Ciò che viene visto – l’immagine e i suoi significati – è dunque relativo e dipendente dalle posizioni e dagli schemi interpretativi che su di esso gravano. Questo ovviamente significa anche che il soggetto è un’entità incompleta, prodotta attraverso processi che non hanno mai conclusione, processi che sono sia sociali, sia psichici, sia, come si diceva, simbolici.

 

Il testo visivo è così sempre all’incrocio di più formazioni discorsive. Se si accetta questa proposta, il guardare e il vedere, come l’interpretare, divengono pratiche culturali che presuppongono sia una posizione e un ruolo sociale ove chi legge le immagini è collocato, sia l’interazione e la trasformazione di ciò che si osserva attraverso le proprie competenze, ma anche i propri desideri. È così che la lettura delle immagini diviene essa stessa una pratica culturale. La comprensione di un testo si allarga così al discorso, o meglio al discorsivo, che dovrebbe inoltre condurre a rendere meno nette le distinzioni tra pensiero e azione, tra idea e pratica. I linguaggi visivi contribuiscono a definire discorsi entro cui si costituiscono i soggetti, ed entro cui i soggetti a loro volta negoziano la loro identità; soggetti e non individui, visto che la cultura, in questo caso la cultura visuale, entra in gioco quando gli individui biologici divengono soggetti.

 

Se però è possibile definire, come abbiamo tentato brevemente di fare, alcuni degli assunti di fondo della cultura visuale, molto più complicato è circoscrivere esempi paradigmatici di tali analisi, per non parlare di un metodo di indagine o un lessico (quando non un metalinguaggio) comune a tutti gli autori che si riconoscono in questa area di ricerca dai confini, è necessario ribadirlo, estremamente imprecisi, la cui ulteriore specificità è dunque proprio quella di riunire paradigmi e assunti teorici a volte anche estremamente differenti, soprattutto operanti a livelli diversi di astrazione e di efficacia non tanto, dunque, del visivo, quanto appunto del visuale, che perciò comprende il contesto sociale, le formazioni ideologiche, i significati simbolici e psichici propri dei simulacri (Baudrillard) di una società dello spettacolo (Debord) ancora tutta da studiare.

 

 

 

Campo di visione, Feticismo, Figurality, Gaze, Glance, Scopofilia, Sguardo sessuato, Società dello spettacolo, Visuality, Voyerismo.

 

 

 

http://www.augustana.ab.ca/~janzb/aesthetics.htm

 

http://www.deadmedia.org

 

http://www.engramma.it/matrix.html

 

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http://www.identitytheory.com/cinema/index.html

 

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Barthes, R., 1964, Eléments de sémiologie, <<Communication>>, n. 4, pp. 91-135 ; trad. it. 1966, Elementi di semiologia, Torino, Einaudi.

 

Baudrillard, J., 1981, Simulacres et Simulation, Paris, Galilée.

 

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Mitchell, W. J., 1994, Picture Theory, Chicago, University of Chicago Press.

 

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26 apr 2021 15:30 


 

SOTTO A CHI TOKEN - RIVOLUZIONE O SPECULAZIONE? I SOSTENITORI DEI “NON FUNGIBLE TOKEN” DICONO CHE CAMBIERANNO IL MONDO, SOPRATTUTTO QUELLO DELL’ARTE. MA È DAVVERO COSÌ? IN TEORIA I CERTIFICATI DI AUTENTICITÀ DELLE OPERE “NON TANGIBILI” POTREBBERO PERMETTERE DI FRAZIONARE LA TITOLARITÀ DI UN’OPERA. UNA SPECIE DI CERTIFICATO DIVISO IN QUOTE CHE CONSENTE DI…

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GUERNICA PICASSO

Paolo Fiore per www.agi.it

 

Che differenza c'è tra Guernica e un meme? Il primo ha un valore perché c'è una certificazione che attesta essere di Picasso; il secondo non vale nulla. Al di là della provocazione, c'è un tema reale: l'autenticità dei contenuti online. Parafrasando Walter Benjamin, è l'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità digitale.

 


                                               non fungible token

È da qui che bisogna partire per capire gli Nft, certificati su Blockchain che promettono di cambiare (e in alcuni casi di creare) il concetto di autenticità. Che sia una rivoluzione – come dicono i sostenitori – o una crypto-bolla – come affermano i critici – non è ancora dato sapere.

 

Cos'è un Nft e come funziona

Nft sta per “non fungible token”, cioè unità di valore digitale non fungibile. È, in parole povere, un certificato. Solo che la sua attendibilità non è data da un ente terzo ma derivata dalla Blockchain: il libro mastro digitale registra le transazioni e indica a chi appartiene. Da questo punto di vista, un Nft non è diverso da un Bitcoin o da un Ether.


 

C'è però una differenza sostanziale: Bitcoin ed Ether (così come una moneta da un euro) sono tutti uguali. Non hanno caratteristiche distintive e sono interscambiabili. Se una bottiglia d'acqua costa un euro, la si può pagare con una moneta con l'uomo vitruviano, con la faccia di Mozart o con due monete da 50 centesimi.

 


Gli Nft, invece, sono trasferibili ma non interscambiabili. Sono unici e individuano qualcosa di unico, come un'opera d'arte. E possono avere un proprietario (o un gruppo di proprietari) per volta. Se ho un euro in tasca, non posseggo tutte le monete da un euro. Ma se ho comprato un quadro di Picasso, è mio e solo mio.

 

Il problema del copia-incolla

Gli Nft si propongono di superare il problema del “copia incolla”. Sul web, il duplicato di un audio Mp3 o di un'immagine in Jpg è identico e ha lo stesso valore dell'originale. Cioè, più o meno, zero. Il tema del diritto d'autore non è certo estraneo ai contenuti digitali. Ma è molto nebuloso (vedi l'esempio del meme) o irregimentato da grandi piattaforme per la distribuzione di video e musica.

 

Per un compratore o per un artista (che sia un fumettista, un musicista o un creatore digitale), il certificato su Blockchain assicura la titolarità dell'opera. Asset come gif, meme, video e persino tweet diventano unici, replicabili ma non sostituibili. Quindi vendibili.

 

In teoria, gli Nft potrebbero diventare strumenti per monetizzare qualcosa che oggi non ha alcun valore in diversi modi. Il più immediato è, appunto, vendere. Un altro potrebbe essere legato agli incassi futuri, dilazionati nel tempo: l'autore, ad esempio, grazie agli smart contract (contratti su Blochckain le cui clausole possono scattare in automatico al verificarsi di alcune condizioni prestabilite) potrebbe incassare una percentuale del prezzo di vendita, ogni volta che l'Nft passa di mano.


 

La differenza tra un Nft e un Picasso

Comprare un Ntf non è, però, come comprare un Picasso. Il concetto di proprietà resta più sfumato rispetto a quello di una tela. Chi acquisisce un Nft non avrà accesso esclusivo all'opera perché un contenuto originale potrà sempre essere replicato e pubblicato online senza differenze apprezzabili (fare un copia incolla è più semplice che replicare Guernica).

 

                                                       jack dorsey

Di fatto, quindi, non si è il proprietario dell'opera ma si detiene il suo certificato di autenticità. O, come dice Ethereum, la piattaforma su cui girano gli Ntf, “l’autentico verificabile” (the verifiably real thing).

 

Nell'arte analogica, questo concetto è meno sfumato: se ho comprato all'asta un Picasso autentico, è mio. Anche se ci sono falsari e stampe senza diritti. Anche se lo cedo momentaneamente a un museo per una mostra. Eppure, anche l'arte analogica ha meccanismi simili. Basti pensare alla provocatoria banana incerottata di Maurizio Cattelan: replicabile ed effimera, ma valutata 120 mila euro.

 

Dai crypto-gattini a Christie's

Se si guarda a Picasso, quindi, l'arte gestita tramite Nft sembra di un altro universo. Se si guarda a Cattelan, siamo quantomeno sullo stesso pianeta. Lo scorso 11 marzo, Christie's ha battuto all'asta “Everydays — The First 5000 Days”, un gigantesco file Jpeg firmato da Beeple. Prezzo: poco meno di 69,3 milioni di dollari, pagati in Ehter. Per avere un'idea della cifra: solo due opere di un artista vivente (“Coniglio” di Jeff Koons e “Ritratto di un artista” di David Hockney) sono state attute a un prezzo superiore.

 

E pensare che all'inizio si parlava di Nft a proposito di gattini: dal 2017 ha preso piede un gioco, CryptoKitties. Scopo: comprare, scambiare e collezionare su Blockchain gattini di razze diverse. Gli Nft, come un pedigree, danno unicità (e valore) a ogni micio.

 

Quanto vale (e chi sta spingendo) il mercato

Dai crypto-gattini, il mercato è cresciuto parecchio, anche grazie al supporto di alcuni grandi nomi delle tecnologia. Peter Thiel, il papà di Paypal, ha investito in OpenSea, il più grande mercato per lo scambio di Nft. Sul suo principale concorrente, Nifty Gateway, hanno puntato invece i gemelli Wiklevoss (quelli che hanno fatto causa a Zuckerberg per aver plagiato Facebook), tra i primi a investire in Bitcoin e oggi miliardari proprietari di Gemini, piattaforma per lo scambio di criptovalute.

DAVID HOCKNEY RITRATTO DI UN ARTISTA

DAVID HOCKNEY RITRATTO DI UN ARTISTA

 

Elon Musk ha pubblicato e messo in vendita l'Nft di una canzone (che parla di Nft). Il fondatore di Twitter, Jack Dorsey, ha venduto il suo primo cinguettio per 2,9 milioni di dollari (che devolverà in beneficienza). Mark Cuban, proprietario della franchigia Nba dei Dallas Mavericks, aprirà una galleria d'arte digitale, esponendo Nft. La star di Youtube Logan Paul ha venduto per 5 milioni di dollari un'immagine che lo ritrae in versione anime.Ai tempi dei gattini digitali, il mercato degli Nft valeva circa 42 milioni di dollari. Secondo un report di Nonfungible.com e L’Atelier BNP Paribas, nel solo 2020 ha mosso 250 milioni di dollari. Poca cosa rispetto all'inizio del 2021, che viaggia verso i 400 milioni in meno di tre mesi.

 

Speculazione o rivoluzione?

Per i suoi sostenitori, l'Nft è molto più di un certificato. E il mondo dell'arte digitale è solo il primo passo. Potrebbe, almeno in teoria, essere applicato anche alle opere fisiche. O anche a oggetti che con l'arte non hanno nulla a che fare: auto, case o persino garanzia per ottenere un prestito.

peter thielpeter thiel

 

Sempre in teoria, gli Nft potrebbero permettere di frazionare la titolarità di un'opera. Una sorta di certificato diviso in quote che consente di vantare diritti su “un pezzo” di meme o su un frammento di Picasso (incassando in proporzione da un'eventuale vendita o da altri sistemi di remunerazione). Ethereum immagina, a proposito, la costituzione di Dao (Decentralised autonomous organisation, Organizzazioni autonome decentralizzate) dedicate alla gestione degli asset.

L'obiettivo ultimo, quindi, andrebbe molto oltre la vendita di Jpeg. Gli Nft punterebbero alla democratizzazione dell'arte e, più in generale, a una gestione decentralizzate e disintermediata degli scambi di beni non fungibili. Un po' lo stesso proposito dei Bitcoin, nati per sostituire con la tecnologia enti terzi.

jack dorsey capo di twitterjack dorsey capo di twitter

 

Proprio la cryptovaluta di Satoshi Nakamoto, però, consiglia di andarci piano. Il Bitcoin ha innescato cambiamenti notevoli, spingendo istituzioni e società private a esplorare le valute digitali (più o meno decentralizzate). Ha aperto a innumerevoli applicazioni della Blockchain (più o meno concrete). Ha raggiunto valori notevoli, ma non è riuscito a imporsi come alternativa monetaria credibile: non si compra il gelato in Bitcoin. È un asset, certo. Ma rientra nell'alveo della speculazione, dell'investimento o della rivoluzione?

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