SIMONETTA FADDA - Definizione Zero

 

Viaggio alle origini della videoarte

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L'editore Meltemi ha dato alle stampe nel corso del 2017 a una nuova edizione del libro Definizione zero. Origini della videoarte fra politica e comunicazione  di Simonetta Fadda, pubblicato per la prima volta nel 1999. Il saggio propone una dettagliata ricostruzione delle origini del video nei suoi utilizzi artistici e politici, soprattutto nell'ambito della controinformazione, dunque, come sottolinea Bruno Di Marino nella Prefazione stesa per questa nuova uscita, nei suoi usi "fuori dal sistema".

Le potenzialità offerte dal video nell'ambito della documentazione e dell’informazione vengono percepite negli anni '60 e '70 tanto negli ambienti artistici quanto in quelli dell'attivismo politico. “La ricchezza e la pluralità d’intenti del video utilizzato per finalità sociali sono testimoniate anche dai numerosi nomi che sono stati utilizzati al suo riguardo: video di movimento, video militante, video underground, video di base, televisione leggera o televisione povera (in contrapposizione alla televisione ricca, quella commerciale e broadcast, ma anche al video d’arte). In questi appellativi sono evidenti le diverse aspirazioni di chi cerca nel video il mezzo per dare una testimonianza, non mediata da esigenze sensazionalistiche, della realtà viva e quotidiana. Costruire la storia dal basso, questa l’utopia che il video sembra materializzare e a cui si deve il suo immediato successo” (pp. 145-146).
La scena statunitense e quella canadese sono le prime ad essere toccate dalla nuova tecnologia del video ed è dunque in questi due Paesi che nascono i primi collettivi video che gettano le basi di quella “particolare estetica video che verrà poi diffusa in campo artistico attraverso le installazioni a circuito chiuso degli anni Settanta e le cosiddette videosculture degli anni Ottanta” (p. 147).
La prima parte di Definizione zero è dedicata all'analisi del medium video/televisione sia dal punto di vista tecnologico che artistico, con una particolare attenzione al rapporto tra visione organica e visualità tecnologica. Nella seconda parte vengono indagati gli esordi del video sia nel mondo dell'arte che in quello dell’attivismo politico, con particolare attenzione all'intrecciarsi dei due ambiti. Vengono indagati anche gli aspetti del video legati alle dinamiche di mercato e le trasformazioni estetiche introdotte da questo nuovo medium soprattutto in rapporto alla comunicazione televisiva. L’ultima parte del volume passa in rassegna le più importanti esperienze video italiane: “Dalle collaborazioni di Luciano Giaccari con gli artisti – soprattutto della body art, della performance e di Fluxus – alla sensibilità mediale di Alberto Grifi, alle operazioni-feedback del collettivo Videobase, alla scuola di controinformazione del Laboratorio di Comunicazione Militante”. Rispetto alla prima uscita del libro, nella nuova edizione pubblicata da Meltemi sono state aggiunte note conclusive volte ad inquadrare il video e la visualità nell'era del digitale 2.0 nell'intento di verificare se è ancora possibile per l'ambito artistico intervenire sulla società di oggi come avvenne inizialmente con il video.
Nel corso della ricerca, sostiene la studiosa nella Premessa alla nuova edizione, a colpirla sono state soprattutto quattro questioni: 1) il fatto che il video venga realizzato dagli artisti prima di essere prodotto dall’industria; 2) l'uso del video come strumento di comunicazione pubblica, non di rado politica, nonostante l'industria pensasse ad un suo uso privato; 3) il forte legame tra video e pratiche artistiche incentrate sul corpo grazie soprattutto al pensiero femminista. “Il femminismo sapeva che il corpo è il campo su cui si costruiscono le identità e i ruoli sociali e ne fece uno degli obiettivi delle proprie lotte di liberazione per l’acquisizione di diritti, voce e autorità sociale della donna” (p. 18); 4) la funzione sociale emergente dalle modalità di presentazione dei video adottate negli ambienti militanti alternativi degli anni '60 e '70. “In tutti e quattro i casi, grazie al video fu possibile creare situazioni collettive capaci di sfidare lo spettatore all’intervento, all’azione diretta sull’oggetto televisore o in rapporto alla situazione televisiva, stimolandolo a entrare consapevolmente e fisicamente nel processo della trasmissione delle immagini. In altre parole, il tentativo di spezzare l’unidirezionalità del rapporto televisione/telespettatore andava di pari passo col desiderio di un’interazione con la televisione come forma di comunicazione, nel senso di una partecipazione concreta dell’utente alla produzione dell’evento televisivo” (p. 19).
Un approfondimento è dedicato da Simonetta Fadda al legame che storicamente si è dato tra corpo, femminismo e video. “In quanto mezzo autoreferenziale e narcisistico, il video è subito adottato dai bodyartisti, che lo riconoscono come il più adatto alla messinscena oltraggiosa di un teatro del sé in grado di mettere radicalmente a nudo gli interdetti che regolano il vivere sociale. Nella body art il video diviene un mezzo per esprimere le percezioni dell’individuo, per dare voce all’esperienza personale, per provocare emozioni, il che rende il medium meno tecnologico, meno televisivo, più artistico. L’utilizzo del video per la manifestazione delle pulsioni più intime dell’individuo, incredibilmente, rimette in campo proprio la nozione di arte come espressione della soggettività eroica dell’artista, facendo così schiudere le porte della fortezza museale. La rivalutazione dell’espressione del Sé, per mezzo di pratiche volte a ridefinire radicalmente lo statuto dell’opera e a sovvertire il sistema artistico-commerciale vigente come la performance, infatti, sposta nuovamente l’accento sul privato, col risultato di allontanare dal video i sospetti da cui è circondato, legati al suo rapporto col sociale, con l’impegno politico e con la critica nei confronti della gestione corrente dell’informazione" (pp. 103-104).
Fadda ricorda come la convinzione che il personale è politico che giunge ad influenzare anche le pratiche della body art, nasca dalle battaglie del movimento di liberazione della donna. “Intesa come strategia in grado di portare a galla e dar voce al rimosso su cui poggia l’esperienza della subalternità femminile, l’autocoscienza in campo video genera narrazioni che richiamano l’attenzione sul nodo ideologico e sessista in cui nella cultura occidentale resta imbrigliato lo stesso piano dell’espressione della soggettività. L’inferiorità a livello sociale ed economico della donna è collegata all’effettiva ineguaglianza da lei subita sul piano del linguaggio. All’avvio delle lotte di liberazione della donna, la valorizzazione dell’esperienza privata, soggettiva e in qualche modo incomunicabile, interviene strategicamente a restituire dignità di parola a un soggetto reso invisibile dalla Storia e non ha niente a che vedere con il feticismo relativo alla soggettività eroica dell’artista (maschio)” (pp. 104-105).
La studiosa sottolinea anche come a cavallo tra anni '60 e '70 l'uso del video da parte femminista risulti sostanzialmente differente rispetto a quello della body art. Nel caso della pratica artistica “si può ragionevolmente parlare di narcisismo del video [...], di messa in opera di una situazione psicologica in cui il corpo del performer è incapsulato nel monitor-specchio, dando luogo a una serie di investimenti libidinali attraverso cui il corpo dell’artista è riletto e ricostruito come soggetto e oggetto dello sguardo, in una sorta di feedback claustrofobico” (p. 105). Fadda cita come esempio alcune realizzazioni video di Vito Acconci attraverso le quali l'artista tenta di stabilire un nuovo tipo di relazione con il pubblico. Al contrario nei video femministi si assiste a un ribaltamento in cui il video “innesca una situazione, basata sulla riflessività, in cui la relazione tra telecamera e monitor è messa in gioco per colmare lo scarto tra la soggettività reale della donna-artista e le rappresentazioni, vigenti nel mondo esterno, della donna come corpo senz’anima e del corpo femminile come oggetto di desiderio” (p. 105). In questo caso la studiosa cita il video femminista Gottin Kôrpertemple (1971) di Friederike Pezold in cui l'autrice, nel riprendere attraverso un lento piano sequenza frammenti del proprio corpo, li trasforma in figure astratte. “L’interesse non è solo verso il dato psicologico contenuto in questa esplorazione di sé, ma nel fatto che la sua rappresentazione è contemporaneamente una rappresentazione delle contraddizioni relative alla sessualità, al genere, alla costruzione identitaria e, perciò, alle gerarchie e ai ruoli conseguenti che operano nella società contemporanea e con cui il soggetto femminile deve fare i conti, prima ancora di potersi posizionare come soggetto” (p. 106).
A distanza di quasi vent'anni dalla sua prima uscita, il libro di Simonetta Fadda, nel suo ricostruire le origini del video tra arte, comunicazione e politica, si rivela ancora oggi un valido strumento sia per approfondire la storia degli albori di questo medium che per riflettere sull'attualità, sull'era digitale dell'immagine condivisa.

 




Simonetta Fadda
Definizione zero. Origini della videoarte fra politica e comunicazione
prefazione di Bruno Di Marino
Meltemi editore, Milano, 2017
pp. 268

 

Origini della videoarte fra politica e comunicazione e altre storie d’arte – Intervista a Simonetta Fadda

immagine per Simonetta Fadda
Cover Definizione Zero

Il fascino dello studiare in biblioteca risiede non tanto nel ricercare testi coerenti con la propria ricerca quanto porsi in attesa di quel libro che può capitarti tra le mani, talvolta per uno sguardo di troppo agli scaffali, talvolta in virtù di una parola sbagliata nel motore di ricerca giusto. Così, intento in alcune ricerche sulla iconodulia in biblioteca Anna Caputi, presso l’Accademia di Belle Arti di Napoli, mi imbatto in un testo che congela la mia attenzione già dal titolo: Definizione zero. Si tratta di un testo edito da Costa & Nolan nel 1999, cui autrice è Simonetta Fadda – dall’indicativo sottotitolo Origini della videoarte fra politica e comunicazione. Lo consulto, ne resto rapito e decido di iniziare la mia ricerca del testo che – cosa rara – si conclude felicemente alcuni giorni più tardi grazie all’acquisto della ristampa di Meltemi del più recente 2017. Tra le due versioni cambia di certo tanto il prezzo quanto lo spessore.

Una lettura abbastanza agile, di certo utile per ricostruire la storia della videoarte, che spesso sfugge all’attenzione di chi è troppo preso da altri quadrilateri.

Di certo completa nell’offrire una metodologia di ricerca in grado di abbracciare in modo esauriente le diverse aree tematiche su cui si sviluppa, con un particolare occhio di riguardo all’esperienza italiana e la lente di ingrandimento rivolta agli anni ’70.  Mi ha colpito la sintassi serrata che compone il testo, soprattutto nella prima parte – decisiva per affrontare teoricamente corazzati la seconda – che analizza il medium con particolare acume socio-tecnologico.

Bando alle mie considerazioni, ho contatto l’autrice riuscendoci al primo tentativo grazie ad una mail al giusto indirizzo di posta elettronica. Simonetta Fadda (http://www.fondazionemilano.eu/cinema/content/simonetta-fadda) si mostra aperta al dialogo solo se i termini della questione si presentano chiari e non generalisti. Così, trovato un accordo sui contenuti, risponde con molta schiettezza ad alcune domande che le rivolgo al fine di rendere manifesti alcuni principi che motivano la sua ricerca archeologica sul video in rapporto ad un indeterminato presente.

immagine per Simonetta Fadda
David Hall, TV Interruption piece, 1971

Nel suo testo Pensare le tecnologie del suono e della musica Agostino di Scipio rilegge le pratiche fondative della musica elettroacustica nel solco della sovversione del mezzo: si vedano tanto i segnali di controllo radiofonico usati per la sintesi additiva nel caso della WDR di Stockhausen quanto il solco chiuso nella pratica di Shaeffer. In che modo questo ri‐orientamento del mezzo può essere traslato alla videoarte?

Ai suoi esordi, negli anni Sessanta/Settanta del Novecento, anche il video degli artisti ha avuto le stesse caratteristiche di sovversione del medium, attraverso un “uso distorto” della tecnologia: sono cose di cui parlo a lungo nel mio studio sulle origini della videoarte. Gli esperimenti di Stockhausen e quelli di Schaeffer lavorano sull’elettronica, esattamente come lavorano sull’elettronica quelli di Paik o dei Vasulka, per citare solo due casi tra i più famosi. Tuttavia, col digitale che costituisce un’evoluzione dell’elettronica, le possibilità di “detournare” la tecnologia sono diminuite in misura drammatica, anzi probabilmente si sono eliminate e questo colpisce la sperimentazione in genere, sia musicale sia audiovisiva. È qualcosa di paradossale perché allo stesso tempo il lavoro con i media tecnologici si è semplificato enormemente, ma forse è proprio questa iper-semplificazione che ha ridotto le possibilità di un intervento creativo alla base, cioè sulla tecnologia stessa.

Cosa comporta l’adesione ad un modello di comunicazione digitale?

A mio avviso c’è molta confusione sul digitale. Mi sembra che in genere nella comunicazione si tenda a sovrapporre la tecnologia in sé con uno dei suoi effetti, la possibilità di un’interazione online, riguardo alla quale, a mio avviso, c’è molta mistificazione: un conto è poter postare dei contenuti personali su una piattaforma, un altro invece è la loro reale condivisione. È questo l’aspetto che secondo me è molto gonfiato nella percezione comune: sembra che affermare una propria semplice adesione (i “like”) sia una condivisione. La condivisione effettiva, invece, dovrebbe permettere l’apertura di un dialogo allargato, un confronto/ scontro tra opposti pareri e visioni, capace di generare processi reali di soggettivazione. Oggi, a me sembra che al posto della crescita in senso personale e collettivo nel mondo reale, la possibilità di postare contenuti online sia una forma per affermare la propria esistenza, il proprio esserci da qualche parte. Di fatto, in questo modo l’idea di dialogo e confronto/scontro è stata ridotta a quella del plebiscito acritico e, soprattutto, non esce dalla rete, cioè non ha effetti sul mondo reale vissuto dalle persone.

In epoca ellenistica, dopo la parentesi callimachea del sentiero bagnato di rugiada (fondativa della poesia neoterica), il ritorno del poema epico (pensa alle argonautiche di Apollonio Rodio) prima, addirittura il romanzo (pensa alle Avventure di Cherea e Calliroe di Caritone) poi, ci mettono in contatto con una nuova lunghezza che sembra farsi strada grazie alla nuova abitudine di lettura del lettore. Pensi che l’attuale paradigma delle serie televisive (dove quel cinema che per ragioni di tempo non può trovare spazio nella sala cinematografica si riflette negli schermi dei laptop) possa segnare una tappa simile?

Perdonami, ma a me l’intrattenimento in generale e la narrazione in particolare proprio non interessano. Perciò, non seguo le serie come “fan”, anche se le guardo da lontano per analizzarne il linguaggio sul piano strettamente audiovisivo. Chiaramente, la visione su laptop o display, che è la fruizione più usuale di questi prodotti, ne ha modificato le forme linguistiche. Però, mi sembrano solo strategie commerciali, per affermare un prodotto e non innovazioni di tipo artistico. L’idea di intrattenimento che è alla base del cinema mainstream che si è affermato nel Novecento, è la stessa che è alla base delle serie tv.

Cosa può significare youtube in termini di archivio della memoria, e non di dispensatore di visualizzazioni

Un archivio non è un semplice luogo di conservazione, ma un luogo dove si fa ordine in merito a del materiale scelto e dove, perciò, si scarta molto. Non entra tutto nell’archivio. Youtube, invece, funziona sull’accumulo indistinto perché su questo si base la sua economia: più contenuti sono postati, più inserzionisti possono trovare spazio e quindi pagare per averlo. Anche il fatto che alcuni youtubber riescano a portarsi a casa dei guadagni fa parte di questa economia dell’accumulo indistinto. Tutto ciò, però, non ha nulla a che fare con l’idea di archivio. Il fatto che si possa pescare in modo indistinto da questo mucchio non significa che questo mucchio sia un archivio. Piuttosto, è una specie di discarica che si autoalimenta e dove finisce di tutto. Non dimentichiamo che il problema dei rifiuti oggi è il più grande problema che l’umanità ha di fronte e che deve risolvere a livello globale. Youtube ci mostra che i rifiuti non sono solo di tipo materiale come la plastica, ma anche di tipo immateriale come i dati che affollano il web e presto ci sarà un problema di sovraffollamento anche in rete.

Quale valore assume l’esperienza della videoarte dopo la rivoluzione del digitale

La video arte come tale è finita, anche se negli spazi dell’arte si vedono tantissimi audiovisivi. Col digitale, è tutto video, anche il cinema mainstream dell’industria cinematografica. Per fortuna, la forma audiovisiva è ormai da tempo una forma espressiva per l’arte e questo è un bene in sé. Nel migliore dei casi, quello che si vede negli spazi dell’arte è qualcosa che non è né cinema (nel senso del cinema di fiction), né video (nel senso del video che si vedeva negli anni Settanta). Nel peggiore dei casi, invece, si propone come una specie di cinema (sia fiction, sia documentario). A mio avviso, l’audiovisivo come forma d’arte dovrebbe proporre un tipo di “attenzione distratta” verso l’immagine-suono in sé che non costruisca storie nel senso classico, dovrebbe giocare sulla tridimensionalità dello spazio, in ogni caso dovrebbe presentarsi come una forma in collisione con l’idea diffusa del “film” come narrazione, quello veicolato dal cinema di fiction che si è imposto nel Novecento e che oggi ricompare sia nelle serie tv, sia nella maggior parte dei contenuti di youtube, anche se in superficie il linguaggio in questi ultimi casi ha subito alcune modifiche.

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